Macteus de Gualdo pinxit
Matteo nasce a Gualdo, in quartiere di porta San Martino, tra il 1430 e il 1435. Figlio del notaio Pietro di Ser Bernardo, come il padre e il nonno continua la tradizione familiare e viene avviato agli studi giuridici: alla professione notarile però, che mai abbandonerà, affiancherà anche quella di pittore, tanto da essere definito Magister nei documenti, cioè maestro, o più semplicemente Pictor, pittore.
L’artista si impegna così in una ricca produzione di opere che lo porteranno a viaggiare tra la sua città natale e Assisi, ma anche a Nocera Umbra, Casacastalda, Gubbio e Sassoferrato, e quindi ad avviare una sua bottega, ereditata poi dal figlio Girolamo, pittore e notaio pure lui come il nipote Bernardo. Un’esistenza all’insegna dell’arte, ma anche profondamente avvinta nella politica cittadina: Matteo è spesso giudice e arbitro, sarà eletto fra i Rettori delle Arti e quindi Priore, partecipando da protagonista alle vicende della Gualdo quattrocentesca, caratterizzata dagli scontri tra fazioni, nei quali è coinvolto anche il suo ultimogenito Francesco. Luci e ombre del Rinascimento nella Terra di Gualdo.
Il borgo medievale in cui cresce Matteo è il perfetto esempio di città federiciana, contrassegnata dalle fisiche presenze dell’abbazia di San Benedetto e del complesso monastico di San Francesco, sulla Piazza Maggiore, e quindi dall’ombra della Rocca Flea, ancora oggi simbolo di Gualdo Tadino.
Gualdo non è nuova alla presenza artistica e certo Matteo, del quale comunque ignoriamo la formazione, conosce il polittico che Niccolò di Liberatore detto l’Alunno dipinge per i francescani nel 1471, la tavola un tempo presso la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati di Bartolomeo di Tommaso da Foligno, e quindi le produzioni di Girolamo di Giovanni da Camerino e di Antonio da Fabriano.
Se il padre lo avvia agli studi notarili, Matteo deve preferire la pittura, a un certo punto della sua vita, senza mai rinnegare il suo retaggio familiare ma anzi, partecipando alla vita politica e amministrativa della sua città, scrivendo di suo pugno documenti e contratti, fungendo da arbitro nelle dispute, fino ad arrivare a ricoprire il ruolo di Rettore delle Arti e quindi Priore del comune.
OPVS MATHEI
I vertici della realtà dell’epoca, che pure vanta una folta presenza di giuristi e notai. I segni tabellionali, decorazioni o elaborazioni grafiche simili a un moderno “marchio” che talvolta accompagnano la sigla o la firma intera dell’ufficiale, sono spesso loro stesse vere opere d’arte, che richiedono tempo di costruzione, fantasia, estro artistico, la cui finalità è però l’attestazione e la certificazione di autenticità e l’autorità dello scritto e del suo contenuto. C’è già dell’arte, almeno un embrione, in casa di quella famiglia di notai. Arte e tecnica, padronanza della parola e del disegno, tanto che si è proposto un passato di Matteo dedicato anche alla miniatura.
Matteo sarà più che altro pittore, soprattutto per la sua futura fama, e nasce in un momento in cui l’arte si consolida come manifestazione spirituale dell’uomo e non più sola meccanica: un’elevazione al rango intellettuale della pratica con l’elaborazione di vere e proprie dottrine, anche estetiche, volte a confermare vere basi filosofiche, dall’Eraclio al Teofilo fino al Libro dell’Arte di Cennino Cennini, ma anche pratiche speculative e sociologiche, appoggiandosi alla concezione aristotelica con la subordinazione della forma alla sua funzione educatrice e morale.
Un momento di graduale passaggio in cui non viene ancora dimenticato il lato pratico e tecnico di chi crea le opere, commissionate dalle autorità civili o ecclesiastiche, e nemmeno l’importanza della bottega, che non è semplicemente una scuola ma un’impresa organizzata, un’officina, più o meno viva, luogo che spesso conserva gelosamente il suo sapere e i suoi segreti. Sullo studio di Matteo non abbiamo notizie certe: unico indizio ci viene concesso dalla documentazione sul pittore gualdese, che rivela la presenza di un maestro, Benedetto di Sante da Camerino.
Macteus de Gualdo Pictor esordisce probabilmente dopo il 1458, in seguito al sisma che ha danneggiato la chiesa di San Francesco. Entrando, sulla sinistra, una Sant’Anna Metterza dal grafismo inconfondibile di aria camerte porta ancora oggi un’iscrizione: “OPVS MATHEI DE…”
L’evolversi del suo particolarissimo e unico stile che gli sarebbe valso il soprannome di Modigliani del Medioevo segue necessariamente le tendenze artistiche del suo tempo ma sembra rielaborarle di volta in volta in funzione del messaggio che probabilmente il pittore vuole lasciar inconsapevolmente trasparire. Si ha infatti l’impressione che il grafismo e la durezza di certi tratti corrispondano a momenti difficili della sua vita, non poco travagliata per il rapporto con i figli, per le vicende che li coinvolgono, per gli affanni politici e, forse, per la spiccata sensibilità di un artista colto che sente il mutare dei tempi, declinata in quel “periodo archeologizzante” che preannuncia l’unicità degli anni ’90 del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo, in cui, annis gravis, ficcato dall’età, come lui stesso scrive, riesce comunque a impreziosire il linguaggio classico già presente, l’eco crivellesco e un certo influsso di scuola ferrarese, dimostrando comunque di vivere il pieno Rinascimento italiano.
Il territorio tra Umbria e Marche è centrale in quel Rinascimento, che se pure è momento irripetibile per la storia dell’arte italiana, momento nel quale ancora oggi ci rispecchiamo, è periodo altrettanto buio a livello sociale. Oltre alla sempre presente peste, che va e viene a ondate più o meno regolari, il passaggio di eserciti e gli scossoni politici – come la calata di Carlo VIII di Francia in Italia – impongono una realtà tutt’altro che equilibrata. La Gualdo di Matteo conosce il passaggio di Francesco Sforza, di Cesare Borgia, di Lucrezia Borgia, di Sigismondo d’Este, per citare alcuni tra i più famosi, e quindi Niccolò Machiavelli, che sosta alla Rocca Flea, e ai Dieci di Firenze, descrivendo i torbidi tempi che vive, scrive in calce alla sua lettera come “altro non ho da scrivere alle Signorie vostre, perché quelle sono prudenti, e intendono benissimo e’ tempi che corrono e li provvedimenti che bisognono. Bene valete. Ex Gualdo, die 6 januarii 1503. E. V. D. Servitor, Nicolaus Machiavellus”
(A. Picuti, Niccolò Machiavelli, Relazione da Gualdo sulla scia di Cesare Borgia, 2020)
“Il più vago e dolce lavorar che sia”, dice di colui che esegue l’affresco Cennino Cennini nel suo Libro dell’arte, eppure dipingere a fresco rappresenta molto di più del solo gesto pittorico, esigendo conoscenze non comuni e una rigorosa pianificazione del lavoro. Una ripetizione di gesti che ricorda quasi una sacralità perduta e antica. Lavorare a fresco, come ci ricorda il Vasari, è andare anche di fretta. Facendolo però nel più perfetto dei modi.
Nel Quattrocento, all’uso della sinopia, si sostituisce via via quello del cartone: si crea una bozza del disegno in scala minore che viene poi trasferita sulla parete attraverso dei grandi fogli. Il profilo è così forato e battuto con un sacchetto pieno di polvere di carbone, in modo da lasciare sull’arriccio il contorno. È la tecnica dello “spolvero”, ma un’alternativa è imprimere con un corpo appuntito i contorni stessi, sempre in modo da lasciare una traccia sulla parete.
I materiali che si usano, e che anche Matteo utilizza, sono innumerevoli e variano in base alla superficie e al colore che si vuole stendere, la reazione chimica di carbonatazione fissa poi i pigmenti.
LA TECNICA
Per realizzare i colori si può far uso di componenti vegetali e quindi estratti, spesso mescolati in lacche, oppure ricorrere a
elementi minerali, e quindi artificiali, da preparare con cura: gli ingredienti talvolta sono tossici. Tanto sono esperti nel maneggiare, estrarre e mescolare elementi a loro utili gli artisti di tutti i tempi, che già dai primi trattati che narrano di colori la loro figura si lega prepotentemente all’alchimia. In effetti, colui il quale prepara il colore attraverso reazioni chimiche di qualsivoglia natura, è in quel tempo ricompreso in quella che nel Medioevo è una delle sfere pseudoscientifiche o pseudomagiche antesignane della scienza moderna. Attraverso lo studio della documentazione d’archivio è stato possibile riscoprire il nome dello speziere che forniva i colori a Matteo di Pietro di Ser Bernardo, ovvero Giuliano di Costantino, amico dell’artista, che ha una bottega nello stesso quartiere di Porta San Martino dove anche Matteo vive.
Certo il pittore deve studiare non poco per apprendere anche solo la tecnica attraverso la quale creare il colore. Dei veri e propri ricettari insegnano come realizzarli. Ad esempio, riprendendo sempre le parole di Cennino e del suo Libro dell’Arte, il verdaccio si fa togliendo “quanto una fava d’ocria scura […]; e se non hai della scura, togli della chiara macinatabene. Mettila nel detto tuo vasellino, e togli un poco di nero, quanto fusse una lente; mescola colla detta ocria. Togli un poco di bianco sangiovanni, quanto una terza fava; togli quanto una punta di coltellino di cinabrese chiara; mescola con li predetti i colori tutti insieme”.
Matteo lavora anche su legno, molte delle sue opere sono infatti pale d’altare. La tavola viene spesso trattata con gesso e colla per renderla meno porosa e accentuarne la luminosità: si abbozzano i contorni e, se presente, si applica la foglia d’oro, tanto cara al gualdese ma anche ad altri artisti a lui contemporanei. L’imprimitura di fondo, dove i colori finali saranno differenti, varierà per tonalità in base alla collocazione dei soggetti: più scura per le parti scure, chiara o bianca per gli incarnati, bianco di piombo o biacca su tavola, ovvero carbonato basico di piombo o ossido di zinco. Il rosso si realizza con l’ocra rossa e con il diaspro ma anche con un minerale chiamato minio o cinabro, derivato del mercurio. Molto usate, perché meno costose, le lacche di kermes, di verzino, di robbia, la gomma lacca, e il sangue di drago. Grande protagonista è l’azzurro, ottenuto attraverso il blu di lapislazzuli e il blu di azzurrite. Detto blu d’oltremare per la provenienza dalle terre orientali, spesso Siria, Egitto o Palestina, e conosciuto nella zona dell’attuale Afganistan già nel V secolo, si compone essenzialmente di silicato di sodio e alluminio con inclusioni di solfuri e solfati; è un calcare mineralizzato contenente cristalli cubici di lazurite. Il lapislazzuli sarà il blu per antonomasia, il colore del cielo, del celeste, dell’eterno, della Vergine. Ancora oggi, nonostante possiamo ricostruire la sua natura, non possiamo fare a meno di lasciarci catturare dalla sua magnificenza.