XV SECOLO E SUCCESSIVI

Chiesa di San Pellegrino

“Abituati finalmente gli occhi alla penombra, di colpo il muto discorso della pietra istoriata, accessibile com’era immediatamente alla vista e alla fantasia di chiunque […], folgorò il mio sguardo e mi immerse in una visione di cui ancor oggi a stento la mia lingua riesce a dire.”

 

Il nome della rosa, Umberto Eco

 

 

Parlare della chiesa di San Pellegrino senza citare l’antica leggenda che l’avvolge assieme al borgo che l’abbraccia delicatamente è impensabile: una chiesa, probabilmente, esiste già nell’Alto Medioevo, ma l’edificio attuale, seppur in origine comprendente solo l’attuale sacrestia, si sviluppa proprio in seguito alla fioritura del bordone del pellegrino, spentosi in queste terre più di mille anni or sono. La chiesa diviene così un vero santuario, meta di pellegrinaggi e catalizzatore di artisti locali, più o meno noti, testimonianza della grande devozione per il Santo Pellegrino e il suo compagno di viaggio, che ancora oggi riposano nella cripta.

Matteo da Gualdo è più volte a San Pellegrino, spesso anche insieme al figlio secondogenito, Girolamo, pronto a portare a termine differenti commissioni che coprono un ampio arco temporale all’incirca corrispondente con gli anni ’80 del Quattrocento. Il gualdese sembra avere anche un più profondo legame con questa terra, sul confine tra Gualdo e Gubbio: sua moglie Margherita è nata nel non distante castello di Crocicchio.

Molte le decorazioni attribuite al maestro del Rinascimento Eccentrico in questa chiesa, ma alcune spiccano per conservazione e per significato, profondamente intrecciate con la storia del territorio: il San Cristoforo di Matteo da Gualdo sulla parete destra, ad esempio, posto sull’estradosso della prima arcata, è datato al 1487 e potrebbe essere stato commissionato dai signori del luogo, i Calai, giunti al castello proprio nel XV secolo, dal nord della Francia, da Calais, da cui deriverebbero il nome. San Cristoforo è protettore dei viaggiatori e dei pellegrini, così come molte altre figure presenti nelle opere di San Pellegrino: lo stesso santo titolare, San Giacomo, e quindi il Beato Angelo da Casale, compatrono di Gualdo Tadino, qui rappresentato da un ignoto maestro in una delle sue prime raffigurazioni.

La chiesa di San Pellegrino è un catalizzatore dell’arte appenninica che stupisce e meraviglia: si svela al viaggiatore timidamente, appena velata dalle fronde degli alberi che sembrano sussurrare una grande storia che gli abitanti del borgo ricordano da più di mille anni. Entrare significa viaggiare indietro nel tempo, seguire i colori e le forme, dialogare con il passato, sulle orme dei pellegrini medievali, sulle orme di Matteo da Gualdo.

L'Opera

Il borgo che custodisce il prezioso scrigno di storia, arte e devozione che è la chiesa di San Pellegrino affonda in verità le sue origini in epoca protostorica, quale nevralgico e strategico luogo di passaggio ai margini dell’Appennino, in una millenaria narrazione che attraversa secoli e popolazioni: dagli Antichi Umbri ai Romani, con la formazione di un avamposto militare, Castrum Contrahense o Contranense, e quindi il lento trasformarsi della società tra Tardo Antico e Primo Medioevo, quando il castrum inizia ad assumere la dignità di castello, sotto il patronato di un signore locale, e cresce in vitalità e importanza.

È in pieno Medioevo che si assiste al prodigio: la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio del 1004 un pellegrino proveniente dalla Provenza, incontrando cattivo tempo, cerca rifugio nel borgo. Secondo una delle versioni della storia una guardia di nome Ono gli nega l’accesso. L’uomo viene ritrovato attraverso un sogno occorso alla figlia del signore del castello, ormai privo di vita, assieme al suo compagno di viaggio. Il bordone, ovvero il bastone del pellegrino, è miracolosamente fiorito. Le spoglie del viandante vengono portate nella primitiva chiesa, oggi corrispondente alla sacrestia, e lì ancora riposano; un ciclo di affreschi di fine XV secolo racconta la vicenda.

La Festa del Maggio di San Pellegrino commemora quell’avvenimento da più di un millennio, ininterrottamente. Ogni anno gli abitanti di San Pellegrino scelgono un pioppo per innalzarlo sulla piazza, poco distante dalla chiesa: è la festa più antica d’Europa. Il castrum prende così il nome di San Pellegrino proprio in onore del suo protettore e quindi, così come ci testimoniano le decorazioni murali, diviene meta di pellegrinaggio.

L’edificio sacro originario è ormai difficilmente riconoscibile: si vuole che una chiesa esistesse già nel VI secolo e fosse già affrescata, ma grazie ad un testamento pergamenaceo del 1288 è sicura la sua esistenza tra XII e XIII secolo, momento in cui la struttura viene lentamente ampliata, prima sotto la giurisdizione di Santa Maria di Sitria poi di Fonte Avellana.

 

Gli attuali affreschi ci raccontano una storia che parte dal XIV secolo: la chiesa di San Pellegrino è

Una gemma incastonata nel verde degli Appennini. Entrando, una luce che sembra Celeste colpisce

subito i nostri occhi illuminando il tabernacolo di Michelangelo Lucesole, scolpito nel XVI secolo.

In alto, sulla parete d’altare, una meravigliosa Annunciazione del Maestro Espressionista di Santa Chiara e quindi il Polittico di Girolamo di Giovanni (probabilmente Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola). La grande presenza di San Sebastiano, San Cristoforo e Sant’Antonio Abate, ribadisce la vocazione al pellegrinaggio ma ci racconta anche un profondo legame con la vita contadina e con la terra. Fondamentali per la storia del territorio le antiche raffigurazioni di San Facondino, vescovo di Tadinum, e del già citato Beato Angelo da Casale, copatrono di Gualdo Tadino e anche lui pellegrino.

Altri artisti presenti sono il Maestro di Fossato, il cosiddetto Maestro Camerte, Orlando Merlini, molti

a noi sconosciuti e quindi, nel XV secolo, Matteo di Pietro di Ser Bernardo, o meglio Matteo da Gualdo, e suo figlio Girolamo.

Matteo, come abbiamo visto, trova la chiesa già ampliamente decorata ed è chiamato ad uno sforzo

notevole: raffigurare il sacro confrontandosi con maestri a lui precedenti o coevi, come Girolamo di

Giovanni, o Giovanni Angelo d’Antonio, al quale sembra in verità ispirarsi, in taluni casi, così come sembra catturare molti aspetti dell’ambito camerte e marchigiano in generale, senza rinnegare l’Umbratile toscano. San Pellegrino è anche la grande storia dell’Appennino: luogo d’incontro umano, sociale, politico, artistico, e mai veramente ostacolo.

 

Il maestro del Rinascimento Eccentrico, assieme a suo figlio Girolamo, sarà più volte in questa terra, e gli anni presi in esame segnano il suo apice politico, con l’elezione a Priore e Rettore delle Arti, e forse la sua massima fama artistica, ma sono anche l’anticamera di una profonda rivoluzione sociale che investirà tutta l’Italia, e momento precedente a diverse, dure vicende personali del maestro; tutto questo sembra riflettersi nella sua pittura, e forse anche in quella di suo figlio, di lì a qualche anno. La critica ha datato le opere presenti agli anni ’80 del Quattrocento; due Crocefissioni, in cui s’intravede un non consueto sforzo paesaggistico, un San Sebastiano, motivo caro a Matteo e vicino, nell’impostazione, a quello raffigurato a Caprara, vicina località sempre ricadente nel comune di Gualdo Tadino, un San Cristoforo meravigliosamente conservato, dalla forte plasticità e dal grande sforzo rinascimentale, datato al 1487, una Santissima Trinità e quindi una Madonna col Bambino in trono tra Angeli Musicanti, che forse rappresenta il più impegnativo lavoro, purtroppo giuntoci in condizioni non perfette.

 

La Vergine, dai tratti che iniziano ad assumere un tono spigoloso e geometrico tipico del gualdese nel suo periodo più avanzato, è assisa su di un trono che è uno scranno prezioso, che ci sembra richiamare i modi di Cola di Pietro di Camerino ma che non disdegna nemmeno il recupero del classico d’aria padovana e un occhio alle evidenze romane e primo-medievali locali; forti le assonanze con le stesse opere realizzate da Matteo a Sigillo, presso la chiesa di Sant’Anna e di Santa Maria di Villa Scirca, datate anche loro agli anni ’80 del Quattrocento.

La struttura inquadra Maria e Gesù Bambino, appena coperto da un etereo velo che richiama il suo precedente nel Trittico di San Rufino, ad Assisi. Opere assisiati ci ricordano pure le decorazioni romboidali, non dissimili dalle stesse presenti sullo sfondo dell’Oratorio dei Pellegrini, così come gli angeli musicanti: Matteo sembra avere una particolare predilezione per gli strumenti, forse per diretto

contatto con artigiani locali, e anche per la notazione musicale, verosimilmente per un suo passato da miniaturista: si vedano le complesse firme nel Trittico di Casacastalda e presso l’Oratorio dei Pellegrini. Dobbiamo immaginare il mondo di Matteo fatto non solamente di colore ma anche di suono, di profumo, di rumore. Il Quattrocento con le sue musiche, i suoi ritmi, i suoi odori. Il mondo sensoriale tutto è fondamentale per immergerci in quel Rinascimento appenninico, ma anche, ovviamente, nel Rinascimento e nel passato in generale.

L’impostazione della Maestà di San Pellegrino ha portato alcuni studiosi ad accostarla addirittura ai tipi di scultura lignea molto presenti sul territorio – si veda quella conservata presso la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia proveniente dalla vicina Fossato di Vico -, paventando la possibilità che Matteo avesse veduto direttamente un’opera simile un tempo presente nella chiesa. Di certo il gualdese è ben conscio di ciò che lo circonda e uomo di profonda cultura: si vedano le citazioni dantesche che inserirà di lì a qualche anno nei cartigli degli angeli presenti nella Pala di Nocera Umbra.

Le vesti di Maria, che nuovamente, nei colori, ci richiamano il Celeste, il terreno e la Passione, accompagnano l’occhio di chi osserva verso il basso, costringendolo a percorrere un cammino invisibile che segue i lineamenti del viso per costringerci attraverso le volute ritmiche dei tessuti, che pure sono  anche un po’ rigide, fino ad incontrare le grazie vegetali fortemente simili alle opere sigillane ma che hanno un forte legame anche con i maestri marchigiani: uno su tutti Carlo Crivelli, ma per trovare un riscontro locale si veda anche il Maestro di Staffolo o il Maestro di Collamato e il suo trittico con San Facondino, conservato presso la Civica Raccolta d’Arte di Sassoferrato. Matteo guarda però anche a modelli provenienti dall’area toscana, e in particolar modo a quegli artisti in bilico tra Gotico e Rinascimento, come Giovanni di Consolo, detto il Sassetta, che Longhi definisce primo esponente del Rinascimento Umbratile.

Ai piedi di Maria, il committente inginocchiato, verosimilmente un facoltoso uomo del borgo, si scopre il capo e si appella alla Vergine.

 

Per il professor Enzo Storelli, uno dei primi a studiare Matteo da Gualdo e il suo entourage, sono diverse le opere del gualdese a San Pellegrino, e non poche quelle in cui potrebbe invece esserci la mano del figlio Girolamo, soprattutto per quanto riguarda la Sacrestia, parte originaria della chiesa, con una Vergine col Bambino, una Santissima Trinità, un San Sebastiano, una Crocefissione e una Madonna con San Francesco. La Sacrestia conserva però anche un’Incredulità di San Tommaso, proprio sopra alle storie del Pellegrino, certamente attribuibile a Girolamo ed ascrivibile ai primi anni del Cinquecento. Da notare le fortissime somiglianze di questa decorazione con Il martirio di San Giovanni Evangelista presso la chiesa di Santa Maria di Laverino, in provincia di Macerata, anch’esso recentemente attribuito a Girolamo di Matteo e datato al 1506, anno in cui probabilmente viene realizzato anche il San Tommaso di San Pellegrino.

Uscendo dalla chiesa, in controfacciata, pur dai modi molto simili allo stile di Bartolomeo di Tommaso da Foligno, presente allora presso la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati di Gualdo Tadino con una pala oggi scomparsa e con delle decorazioni a fresco di cui restano pochi lacerti, è attribuita a Girolamo la raffigurazione del Santo Pellegrino. Il protettore del castello sembra guidarci nella via facendo eco alla sua storia millenaria che unisce anche Matteo da Gualdo, suo figlio, i pittori a loro precedenti e coevi a noi, in una narrazione che attraversa secoli, territori, popolazioni, nomi e volti.

È il Rinascimento Eccentrico, il Rinascimento in terra d’Appennino. È la traduzione locale di immagini che iniziano ad aprirsi ad un nuovo modo d’intendere la raffigurazione senza ancora rinunciare alle radici più antiche, tardogotiche, a quella maniera più sognante e simbolica pienamente medievale

che qui sembra seguire la spigolosità del territorio e il mistero di certe leggende.

Vita della vita eterna

Il San Cristoforo realizzato da Matteo da Gualdo nella chiesa di San Pellegrino sembra perdere i duri tratti che iniziano a contraddistinguere il maestro del Rinascimento Eccentrico alla fine degli anni ’80 del Quattrocento. Datato al 1487, e probabilmente commissionato dai signori del castello appena insediati, giunti dal nord della Francia, la famiglia Calai, l’affresco rappresenta una delle figure che da sempre accompagnano i pellegrini lungo i loro cammini. Cristoforo, dalla sfuggente agiografia, indefinita e leggendaria, martirizzato forse in Licia sotto Decio, nell’iconografia occidentale è sempre accompagnato da Gesù Bambino sulla spalla mentre attraversa un corso d’acqua. Uno degli attributi tipici del santo è il bastone, spesso fiorito, qui chiaro riferimento alla leggenda di San Pellegrino. L’immagine classica, derivata dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, è resa da Matteo con una inconsueta ricerca del dettaglio. Pochi colori che vanno però a caratterizzare i personaggi presenti e anche uno studio del paesaggio, chiara apertura verso i paradigmi del pieno Rinascimento.
Fulcro della scena è però il bastone, o bordone, in un indissolubile legame con il territorio: “in me si cela un granello” – scriveva Hesse riguardo all’albero che costituisce il bastone – “una scintilla, un pensiero, io sono vita della vita eterna”.

In tempra tesa di tante corde

Matteo sembra avere una particolare inclinazione per la musica e gli strumenti musicali. Anche se questi appaiono abbondantemente nell’arte, anche medievale, l’artista gualdese cerca il dettaglio in maniera meticolosa – come nel trittico di San Rufino, ad Assisi -, finendo per rappresentare anche esempi di notazione quadrata, come nella facciata esterna dell’Oratorio dei Pellegrini in Assisi, dove si cimenta nella raffigurazione del Gloria messo in musica.
Non sappiamo se il gualdese fosse in stretto contatto con artigiani, magari locali, che si adoperavano nel realizzare strumenti. È pur vero che il suo luogo di nascita, il quartiere di San Martino, possiede anche una vocazione artigianale, soprattutto nella zona più a contatto col fiume, poco fuori dalle mura urbiche. La presenza di nomi provenienti dalla Toscana e dalla Lombardia, confermata dagli scritti dello stesso Matteo da Gualdo, fa pensare ad un possibile sviluppo artigianale del paese che investiva più ambiti.
La Madonna in trono col Bambino di San Pellegrino, pur con richiami al classico e al suo periodo iniziale – si veda la composizione del trono – vira verso il tardo Matteo, che qui rappresenta gli angeli come musicanti, con in braccio una viella.
La musica è da tempi ancestrali parte integrante dello sviluppo umano, cerebrale e spirituale, e qui incarna esattamente il pensiero medievale, pur essendo il pittore a conoscenza della trasformazione che inizia nel XIV secolo riguardo il paradigma musicale. È lo stesso pensiero che ispira Dante in Paradiso, quando l’armonia degli astri si avvicenda al canto angelico nell’ascesa del Sommo: “E come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, fa dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa, / così da’ lumi che lì m’apparinno / s’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno.” (Paradiso, XIV, 117-120)

Il sole si eclissò

La sacrestia della chiesa di San Pellegrino, antico nucleo primo della struttura, poi allargatasi nel tempo, conserva anch’essa importanti decorazioni a fresco: oltre al ciclo raffigurante la leggenda del santo sono diverse le opere attribuite a Girolamo e a Matteo, analizzate con cura negli anni ’70 dal professor Enzo Storelli. Non è facile distinguere la mano del padre e del figlio, sebbene sembri maggiore la presenza proprio di Girolamo, ma emblematica risulta la Crocefissione, nella seconda sala, collocata al centro del registro superiore.
I marcati tratti geometrici fanno pensare alla grafia del maestro gualdese, quella tipica dell’ultimo periodo. È sempre Storelli ad accostare la Crocefissione di San Pellegrino alla stessa iconografia, giuntaci solo in parte, realizzata da Matteo per la chiesa di San Rocco, a Gualdo Tadino. Potremmo collocare l’opera, in maniera congrua con la datazione delle altre, alla fine degli anni ’80 del Quattrocento, ma forse, spingendoci un po’ oltre, anche ai primi anni ’90. Suggestivo il parallelo con l’unica croce lignea a noi nota di Matteo da Gualdo, conservata presso la chiesa di Santa Maria in Arce, sulle colline di Assisi, e un’altra crocefissione assisiate presso la Rocca Minore.
La scena, pur mantenendo la geometrizzazione e l’allungamento tipico dei corpi, cerca un certo patetismo che sembra rifarsi ai modelli miniati e ai Vesperbild d’area tedesca. Pur riferendosi, questi ultimi, all’iconografia della Pietà, non disegnano infatti la ricerca del tono ombroso. Morbida roccia, come fosse velluto, delinea un Golgota spaccato che lascia intravedere uno sfondo appena caratterizzato. Il Christus Patiens, ovvero morente, con la testa reclinata, pare occhieggiare a modelli cimabueschi che Matteo conosce molto bene. Un indefinito vento muove il prezioso tessuto che copre il Salvatore come per il sopraggiungere del buio: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.»   Luca 23, 44.

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