Seconda metà degli anni '80 del XV secolo

Chiesa di San Rocco

«[…] si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua […].»

Giacomo Leopardi – Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura

Il piccolo edificio si staglia alle porte di Gualdo Tadino, sul lato meridionale delle sue mura medievali, ben osservabili, insieme alla poderosa Rocca Flea, dalla collina su cui sorge la chiesa dedicata al santo protettore che per eccellenza intercede contro le pestilenze, San Rocco. Voluta in seguito alla propagazione dell’epidemia del 1448, viene costruita almeno trent’anni più tardi, ma forse come ampliamento di una preesistente edicola, o un più piccolo edificio: i graffiti presenti sulle pareti ci narrano di una risistemazione della chiesa, probabilmente quindi ristrutturata, ma ci raccontano anche del grande flusso di pellegrini provenienti da tutta Europa, che lì sostavano in preghiera, con nomi come Thomas Grunwaldt o Daniellius de Bouchet.

A pochi passi dalla struttura, proprio in quartiere San Martino, c’è la bottega di Matteo di Pietro di Ser Bernardo: il pittore, in quel momento di fine Quattrocento al massimo della sua notorietà, viene chiamato a decorare le pareti, seguendo le richieste di più committenze. Ne uscirà un meraviglioso ciclo dai colori ancor oggi favolosi. Una narrazione che sussurra di tempo, devozione, arte e speranza.

L'Opera

La chiesa di San Rocco, oggi completamente inserita nel tessuto urbano della città, sorgeva un tempo nella prima campagna, o collina, gualdese, poche centinaia di metri fuori dalla porta urbica intitolata a San Martino e proprio sulla via che conduceva alla chiesa dedicata al santo che si stracciò il mantello, anch’essa in aperta campagna. Il piccolo edificio viene eretto poco dopo la forte pestilenza che affligge il territorio alla metà del XV secolo, epidemia che non si esaurisce del tutto, e ritorna, come noto, in più fasi. I lasciti testamentari, come quello di tale Margherita di Ermanuccio o di Pietro di Rinalduccio, datati al 1476, fanno intuire come, a quella data, fosse già aperto il cantiere per la costruzione della stessa chiesuola, completata nella seconda metà degli anni ’80, proprio quando viene chiamato a decorarla Matteo da Gualdo. Gli affreschi della cappella, voltata a botte e dotata di un unico altare, non seguono una logica narrativa unitaria ma constano di più quadri giustapposti, commissionati da privati come ex voto, probabilmente come ringraziamento per essere sfuggiti proprio alla peste. Non tutto il ciclo pittorico si è conservato nel migliore dei modi ma le figure, tra le quali compaiono immancabilmente San Rocco e San Sebastiano, invocati per la malattia, sembrano uscire da una silenziosa ombra, come per emergere dalle nebbie del tempo, animandosi di un fascino particolarissimo. Quel che resta è un meraviglioso esempio del Maestro del Rinascimento Eccentrico, ascrivibile alla seconda metà degli anni ’80 del Quattrocento, in linea con i lavori che il gualdese completa nello stesso periodo a San Pellegrino, nell’omonima chiesa, e a Sigillo, presso Santa Maria di Villa Scirca e Sant’Anna, con fortissime corrispondenze pure nelle cornici decorative. Il fascino delle figure allungate, delineate e geometricamente costruite, sembra amplificato proprio dal loro non essere più complete, come richiedessero lo sforzo mentale di chi le osserva per essere colmate, una certa meditazione e silenzioso rispetto.

DI LUCE E D'OMBRA

Sulla parete sinistra, quella settentrionale che volge lo sguardo alle mura della città, si avvicendano più quadri decorativi: la cosiddetta Madonna dell’uva, primo affresco entrando, sormontante un più articolato quadro che funge da predella, San Rocco e probabilmente Sant’Antonio Abate nel successivo, una Madonna col Bambino tra Sant’Agostino e San Rocco sopra la finestra e quindi, prima dell’arcata che divide la piccola aula dall’abside, sul cui pilastro sinistro si trova una Sant’Apollonia, una Madonna Orante col Bambino tra San Sebastiano e San Giacomo. La Vergine Maria, assisa su di un trono scolpito, avvolto da sete e ricami che ormai riusciamo solo vagamente ad intuire, china il capo verso Gesù Bambino, adagiato sulle ginocchia. Si stringe in preghiera, in adorazione, e la resa psicologica di quel momento di estrema devozione rende questa prova di Matteo da Gualdo unica nel suo genere. Il volto, pur leggermente virato nei colori, mantiene una viva identità, riuscendo ancora a trasmettere in maniere potente il suo messaggio. Gli occhi socchiusi, le gote appena accennate, il profilo appena accennato, sgraffiato sulla biacca come con la sgorbia, conferiscono all’affresco un’aura mistica davvero imponente.

La Madonna dell'uva

Certamente Leopardi non ebbe mai modo di mettere piede nella chiesa di San Rocco, ma val bene riflettere usando le sue parole, da mirabile narratore della luce qual è, per capire quanto stupore desti questa Maestà di Matteo da Gualdo, per ovvie ragioni qui rinominata Madonna dell’uva. Il poeta, nei frammenti 1744-1745 dello Zibaldone, spiegava come l’uomo sia da sempre affascinato dagli “oggetti veduti per metà o con certi impedimenti”, quelli percorsi da una luce indefinita, riflessa, “ribattuta”, che “non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi”. Forse è proprio il suo restarsene eloquentemente in silenzio, in un angolo, bagnata dalla luce riflessa dall’intonaco bianco, a rendere questa pittura del Maestro del Rinascimento Eccentrico così preziosa e irripetibile. Matteo decora il piccolo edificio probabilmente durante un suo ampliamento, intervento che si colloca nella seconda metà degli anni ’80 del Quattrocento. Insieme a lui, verosimilmente, il secondogenito Girolamo. Un lavoro a nemmeno duecento metri da casa. Un’opera “domestica”, come molte altre, ma non per questo dalla minor forza comunicativa. L’abito di Maria è una pietra preziosa duramente scolpita, nel quale si riscontrano le forti assonanze con la Maestà di San Pellegrino. I dolci visi degli angeli, non tipizzati, ricordano il naturalismo usato a Villa Scirca, a Sigillo, nel volto della Madonna della Misericordia, così come le decorazioni fitomorfe che corrono sulle cornici falsamente aggettanti e adombrate, un tempo struttura pittorica dell’aula, assimilabili alla chiesa di Sant’Anna, sempre a Sigillo. Il maestoso e imponente trono, un tutt’uno con la veste a dire il vero, spigoloso e marmoreo, richiama l’omologo della già citata San Pellegrino. Soggetto iconografico insolito, ma estremamente biblico, il grappolo d’uva sorretto dal Bambino Stante, ovvero in piedi, che è anche il segno dei primi esploratori della Terra Promessa. Così l’uva, nelle Scritture e poi nell’arte, diventa pian piano simbolo del Salvatore. Un suggestivo ex voto, popolare ma colto, rielaborato da Matteo di Pietro di ser Bernardo nel suo linguaggio di transizione, quello che alla fine degli anni ’80 esaspera linearismo e allungamenti, per sbocciare nelle iconiche, ultime prove artistiche, soprattutto su tavola. Era stato lo stesso Dante, nel canto XXVII del Paradiso, a parlare della natura e dell’arte, e a dirci come entrambe creino cose meravigliose, tanto da conquistare i sensi e la mente. Non si può non rimanere affascinati, in un rigoroso, spontaneo silenzio, di fronte ad una così identitaria opera, segno tangibile di devozione e fede, arte e storia del territorio.

San Sebastiano

Cesellato, scolpito e tornito, colonnare, il San Sebastiano dipinto da Matteo da Gualdo nella seconda metà degli anni ’80 del Quattrocento a San Rocco sembra uscire dalla mente di uno scultore. La tunica si avvolge su sé stessa in una spirale, geometricamente studiata, spigolosa, per nulla conscia della naturale forza di gravità ma influenzata invece dalla Celeste presenza della vicina Maestà. È a Maria e a Gesù che si rivolge, com’è consono, San Sebastiano, in una sacra conversazione della quale abbiamo quasi completamente perduto il secondo personaggio. Il santo martire romano, per antonomasia protettore dalle malattie con San Rocco, è qui raffigurato in una particolare iconografia: le frecce, estratte dal corpo ed elegantemente sostenute con due dita, lasciano i segni sulla pelle, cicatrici che divengono, per estensione, simbolo delle malattie che colpivano in quel finire di Quattrocento, e intercessione affinché queste potessero lasciare in pace la popolazione. San Sebastiano è in preghiera, reclina il capo umilmente: studiati i riccioli, non distanti da quelli dipinti da Matteo per il San Michele Arcangelo a Grello, o l’angelo conservato alla

Pinacoteca di Assisi, a Palazzo Vallemani. Meglio ancora l’accostamento con il San Giorgio presso la chiesa di Sant’Anna, a Sigillo, del 1487, con il quale trova molti congruenze: profilo del viso, capelli, postura e fisionomia, tendente all’esasperazione dell’allungamento.
Una figura ricorrente nel territorio umbro-marchigiano, rielaborata da Matteo da Gualdo in una lingua tutta personale.
La presenza di San Sebastiano, nelle pitture, assieme a Sant’Antonio Abate, e San Rocco, testimonia anche una funzione di pellegrinaggio dell’edificio, idea avvalorata dai molti graffiti presenti. Di certo San Rocco è proprio sulla via che da meridione entra a Gualdo, e molti dovettero essere quelli che vi sostarono. Un meraviglioso esempio di Tardogotico, una miniatura che si fa monumentale e racconta la sua storia.

I graffiti

“THOMAS GRWNWALDT / DE COMITATUS (VETONIE?)

Uno dei graffiti presenti sulle pareti della chiesa di San Rocco, in questa occasione di un uomo d’origine germanica, ascrivibile al XVI secolo. Osservare le lettere incise da antichi pellegrini lascia sempre sgomenti: il contatto col passato, in quei semplici solchi, è vivissimo, attuale e personale. Ci sembra d’intravedere l’antico pellegrino che ha lasciato il suo segno dopo aver viaggiato per miglia, attraversando pericoli, valicando tratturi di montagna, solcando strade polverose.

Si ringrazia il dott. Pier Paolo Trevisi, delegato per la Regione Umbria del progetto Graff-IT e curatore del volume “Graffiti dell’Umbria fra Medioevo ed Età Moderna”.

Gallery Fotografica

Video realizzato con il sostegno della Fondazione Perugia nell’ambito del progetto WellTree