Ci troviamo nel cuore del centro storico di Gualdo Tadino, nel quartiere contraddistinto dalla presenza della porta urbica intitolata a San Martino. Un luogo vivo, vivissimo, soprattutto all’apice della Gualdo rinascimentale, quella quattrocentesca: nello stesso quartiere avremmo infatti trovato botteghe, case benestanti, luoghi di commercio, via vai di mercanti, quindi il Rettorato delle Arti, potente consorteria di regolamentazione dei mestieri, alla stregua delle corporazioni nelle realtà più grandi, di cui sappiamo essere stato rettore, e per più volte, anche il nostro Matteo da Gualdo. La chiesa, nasce come luogo voluto e gestito dall’omonima, potente confraternita: realtà antichissima, che fino a qualche anno fa si credeva fondata non più tardi dei primi del Trecento, essendo stato rinvenuto uno strumento notarile del 1315 nel quale si evince che Petruccio di Morico di Compagnolo, vendeva “la casa dove è la chiesa della Fraternità di S. Maria dei Raccomandati”. Secondo un recente studio pubblicato dalla Soprintendenza archivistica per l’Umbria – Il fondo archivistico delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza del comune di Gualdo Tadino, l’archivio della congregazione di carità, inventario a cura di Vittorio Angeletti, Eleonora Giovagnoli, coordinamento scientifico Francesca Ciacci -, la prima menzione della confraternita va retrodatata al 1274, e probabilmente fondata già nel 1267, sotto il pontificato di Papa Clemente IV.
La chiesa, che oggi ci appare differente rispetto a quel che doveva essere un tempo, pur conservando gli splendidi archi a sesto acuto della più antica struttura, era amministrata proprio dalla Confraternita, che lì si riuniva, sceglieva i suoi priori, i suoi presbiteri, commissionava opere devozionali, incamerava donazioni, eredità, lasciti, gestendo finalmente anche diversi appezzamenti di terreno che erano dati in affitto. A tal proposito, riporto uno dei verbali di adunanza ritrovato nell’archivio della Biblioteca Capitolare di San Benedetto, datato 4 novembre 1492. Il documento descrive come l’adunanza ceda un suo terreno in lavorazione a tale Antonio, il quale però sarà obbligato, secondo quanto stabilito dai patti e messo per iscritto, a pagare un canone attraverso i frutti del lavoro dello stesso appezzamento, pur conservando per lui alcune prerogative, ma con il divieto assoluto di tagliare, anche solo parzialmente, qualsivoglia albero vi troverà, soprattutto se da frutto.
“Mariano de Giere et Francesco de Ciprianus de Bruscherto priore della fraternita della santa Maria com presentia de ser Geppe et me Berardo consigliere delli decte priure et presente Lionardo dello Adventore et Oliviero de Francesco de Bencevenne diero et confermaro al laoreccio el podere della detta fraternita ad Antonio delli Brevii con questo pacto et conditione che el detto Antonio sia tenuto a rendere il terzo del terreno et delle nuce et la ianne che fosse nel terreno lagorativo sia per lo detto Antonio et ancora possa somenare per lui una o dui porche comune de fave et se resomenasse lino sia tenuto ad rendere tanto grano quanto fosse el terzo che dovesse fare el detto terreno et che el dicto Antonio o altre per lui non possa scapezzare cerque ne arbore da fructo per fare legna el colle didagte (?) che non se lagora la ianne che facesse sia per la detta fraternita non volendola comparare per lo devere el dicto Antonio.”
La confraternita aveva giurisdizione anche sul vicinissimo Ospitale di San Giacomo, poi di San Lazzaro, attivo a Gualdo Tadino fino al XVIII secolo e unito a quello dei Fratrum Congregationis, riservato ai pellegrini, verosimilmente annesso alla struttura. Per questa istituzione, e per il culto dedicato allo stesso San Giacomo, protettore dei pellegrini, illuminante un manoscritto custodito sempre presso la Biblioteca Capitolare di San Benedetto di Gualdo Tadino, che fa riferimento al cerimoniale e alla prassi da tenersi per le celebrazioni dedicate al santo. Il documento, stilato dalla Confraternita di Santa Maria dei Raccomandati nell’allora Abbazia di San Benedetto, porta la data del 1470, e fa riferimento ai doveri dei sacerdoti, dei confratelli e dei canonici per la ricorrenza della festa, il 25 luglio:
“Al nome de Dio et de la Vergine Maria et di San Giacomo et tucti Sancti amen: Sia noto et manifesto ad qualunque vedera o legera questa parte scripta come Corrado de Andrea et Stefano Todesco, priori de la detta fraternita, de prudentia et con sentimento de Bernardo de Gabrielli et domine Gasparre de li Ranierii, confrati de la detta fraternita a li quali so remesse le interposte cose: condussero don Mariotto Donatadio da Gualdo per uno anno comenzando in dì de la sollempnita et festa del perfeto glorioso nostro Santo Giacomo adì 25 luglio 1470 et come sequita finendo: a servire de messe secondo pacti intercorsi: cioè che detto don Mariotto promette de quindeci dì in quindeci de dire una messa piccola, cioè de dì de domenica in la detta chiesa de Santa Maria, et la quatragesima ogni domenica: Et in la festa de San Giacomo una messa cantando et un’altra leggendo: Et la festa de li inocenti similmente come usato, et la festa de l’assumptione una messa ordinata et almeno doi messe legendo: Et debbiase trovare alla processione la vigilia de la detta festa: Et anche la septimana santa a fare l’offitio del batistero de la sera: Et detti offitii sia tenuto fare et fare fare a tucte sue spese: epcepto in la festa de l’assumptione li priori li debbiano dare pane et vino per lo desenare de li preti che interveniano a lo detto offitio: Et li priori sieno tenuti ad candele doppie et incenso o altre cose oportune a la celebrazione de la detta messa (et fiorini doi ad 40 bolognini per fiorino)
Et così rimasero de accordo in la chiesa de San Benedetto, presente don Gennario et Antonio de li Brevi de Gualdo estensore”.
San Giacomo è onnipresente sul territorio, frequentatissimo dai pellegrini e dai viaggiatori. A tal riguardo vale la pena menzionare la vicina chiesa di San Rocco, edificata, secondo recenti studi archivistici, a partire dalla fine degli anni ’70 del XV secolo, proprio in concomitanza con una nuova recrudescenza della peste. L’edificio sembra essere affidato, per un periodo, alla confraternita di Santa Maria dei Raccomandati, abbinato all’ospedale. Grazie al recentissimo studio del progetto Sulle orme di Matteo da Gualdo, in sinergia con il Graff – IT ERC Project, si sono potuti individuare diversi graffiti sulle pitture della chiesina, di cui uno riportante il nome di Thomas Grunwaldt, pellegrino germanico, e uno raffigurante un piccolo spartito musicale con notazione quadrata, che ritroviamo anche in San Francesco, forse della mano dello stesso pellegrino. Anche Santa Maria dei Raccomandati doveva aver avuto una forte frequentazione: l’unico graffito rimasto, inciso sulla veste di un San Rocco in controfacciata, è di fondamentale importanza, essendo stato scritto da un ignoto personaggio riscontrato in decine di edifici in Umbria, in Abruzzo e nelle Marche. Seriale nelle iscrizioni, l’ignoto pellegrino, forse un frate, incide a Gualdo le seguenti parole:
D(EV)S ET HO(MO) LEGALIS
ET FIDELIS I(N) SAPIE(N)TIA
[—] VIDE(N)DI (ET)
LOQVE(N)DI ET TA(N)[GE]
GE(N)DI ET COGI
TA(N)DI ET A(M)BV
LANDI ET IUSTI
FICA(N)DI
[Per la trascrizione del testo graffito si ringrazia il dott. Pier Paolo Trevisi, del Graff-IT ERC Project]
Curiosa e suggestiva la presenza, nella Confraternita di Santa Maria dei Raccomandati di Gualdo, di un uomo proveniente da Padova, e trascritto nei documenti dal 1449 solo col nome di Padoano o El Padoano, quindi finalmente specificato col nome di Aloisio da Padova. La consorteria non è solo un potente strumento devozionale, è pure un vero centro politico ed economico: ne faranno parte il notaio gualdese Luca di Ser Gentile, più volte estensore dei documenti di Matteo da Gualdo insieme all’altro notaio, Bernardino di Pietro di Benedattis; Giuliano di Costantino, amico del pittore, speziere; i Ranieri, tra cui spicca Gaspare, famiglia perugina installatasi a Gualdo e profondamente invischiata con le vicende politiche cittadine. Vale la pena menzionare un inusuale priorato, occorso nel 1500, quando, stando al registro della stessa confraternita, il ruolo viene, in maniera del tutto inconsueta, ricoperto da due donne: Imperia di Francesco di maestro Antonio e Martina di Girolamo di Grassello.
La facciata che possiamo vedere oggi in piazza XX Settembre è frutto dei rimaneggiamenti subiti nel tempo, uno su tuti la sopraelevazione del XVIII secolo. Restando fedeli a quanti lavoravano sul territorio tra la fine del ’200 e i primi del ’300, ovvero i Maestri Comacini stabilitisi ad Assisi, è lecito pensare che fossero proprio loro a mettere mano alla costruzione della chiesa, tanto che resta traccia di Maestri lombardi abitanti in Gualdo anche nei documenti del Quattrocento. L’aspetto poteva essere molto vicino a quello del monastero benedettino primigenio, quello sul quale sarebbe sorta l’attuale cattedrale, con forse il sostegno di un diaframma, così come ancora si vedono a San Pellegrino o nel Duomo di Gubbio, e una copertura a capriate, in legno. All’interno, dopo il rovinoso sisma del 1997, i restauri hanno riportato alla luce frammenti di affresco che certo meritano d’essere descritti più nel dettaglio per quello che rappresentano a livello storico artistico. La tela dell’Annunciazione, datata 1580, è la prima opera a noi nota di Avanzino Nucci, pittore che si inserisce pienamente nel clima di promozione decorativa voluta da Sisto V. Pur essendo proposti i natali eugubini o di Città di Castello del Nucci, nella scritta che compare su un frammento della Madonna del Rosario del 1620, il pittore si definisce gualdensis, probabilmente per il forte legame con la città che considerava come seconda Patria. Le pitture sono di Pico discepoli, quindi più recenti, così com’è recente la copertura delle aperture gotiche all’esterno, con un recente mosaico raffigurante la Madonna delle Grazie e un pannello in ceramica del pittore Angelo Carini “Estasi del Beato Angelo” con la figura dell’Immacolata Concezione tratta da Bartolomè Esteban Murillo. Pregiatissimo il crocifisso di XV secolo, proveniente dalla chiesa di San Francesco, riconducibile al gruppo di opere di fattura tedesca e di committenza francescana, caratterizzate da un forte espressionismo del corpo e della plasticità.
In controfacciata e in parte di quella che è la parete destra possiamo ancora ammirare quel che resta della decorazione della struttura. Una Madonna della Misericordia tra San Giacomo e San Bernardino ci si presenta all’interno di una mandorla luminosa. Ai suoi piedi, rigidamente distinti tra uomini e donne, il popolo, e in particolare i membri della Confraternita. Della stessa mano la purtroppo mutila Crocifissione sulla controfacciata, di cui evidente resta solo San Rocco con il graffito dell’ignoto già descritto.
Le forme allungate, affettate, geometricamente spigolose, i colori audaci, contrastanti, l’ambiente quasi lunare tipico della pittura marchigiana appenninica contaminata con l’ambiente folignate indirizzano la nostra bussola verso Bartolomeo di Tommaso da Foligno. Di lui, in Santa Maria, un tempo esisteva pure una tavola dipinta, ormai dispersa o distrutta. Nuovamente ce lo conferma il registro della consorteria con il pagamento, nel 1447, per la “taola” di Maestro Bartolomeo da Foligno, la cui doppia conferma ci deriva pure dalla documentazione della città folignate, abbondantemente studiata e inserita in Pittura a Foligno di Benazzi, Cordella, Feliciani, Lunghi, e Nicolaus Pictor, di Benazzi, Lunghi, edito da Orfini Numeister.
Questo già ci dovrebbe riportare con l’immaginazione in un ambiente completamente differente rispetto a quel che vediamo oggi: luci non artificiali, che fanno letteralmente muovere le aureole, un tempo dorate, aggettanti, e fanno animare le tavole, dorate anch’esse, presenti nella struttura, completamente dipinta. Sappiamo con certezza che v’erano ameno altre quattro ancone. Di una abbiamo anche un documento, scritto per mano del pittore, il nostro Matteo di Pietro di ser Bernardo. Andiamo dunque indietro alla fine del XV secolo. I priori sono seduti al loro posto, vestiti come si conviene al loro rango: sono Profirio e Benvenuto di Rufinello. Accanto a loro i segretari Geppe di Iacomo di Maestro Antonio, Corrado di Corraduccio e Oliviero di Bencevenne. Intorno a questi gli altri confratelli e dinnanzi Matteo di Pietro di Ser Bernardo.
Matteo ha oltre sessant’anni in quei giorni e non è solo fine e coltissimo artista, egli è anche esperto nelle lettere e abituato a scrivere; mette mano alla penna e si assicura che tutto sia messo per iscritto:
“Al nome de Dio amen. Anno Domini 1497 a dì 16 de maggio, nella chiexia de Santa Maria de’ ricomandati.
Noto et manifesto sia ad chi vederà, leggerà, o leggere sentirà questa presente scripta, o vero foglio, commo io Macteo de Pietro pentore de Gualdo, tolgho de depengere una tavola con la Conceptione della Nostra Donna dalli spectali homini (…) che io Maceo predicto sia obligato rt deggha mectere el campo, dove sonno le figure, de oro fino; similiter le cornici pure ad oro fino sieno messe, excepto el bordone de fora; et degga mectere secondo parerà ad me; et cusì el piano del frigio. Et anche sia obligato et degga dicte figure, secondo rechederà, laorarle da culuri fini boni et recipienti, ad uso de bon magistro. (…)”
Di lì a poco sarà realizzata la tavola, e prenderà posto sull’altare dell’Immacolata della stessa chiesa.
L’opera, inusuale per il panorama umbro, è oggi conservata presso il Museo Civico Rocca Flea di Gualdo Tadino: quasi due metri e venti di altezza per un metro e trenta di larghezza in cui l’artista raffigura, su di un abbagliante fondo oro, così come ha promesso, l’albero genealogico della stirpe di David: i personaggi che compaiono in tondi creati da preziosi girali che ricordano le decorazioni romaniche del portale di San Rufino, ad Assisi, e sono descritti per nome, parte della genealogia di Cristo. Gli arbusti e i rami ideati per inscriverli si dipanano da un tronco, le cui radici affondano nel personaggio disteso, sulla parte bassa della tavola: Adamo. Meravigliano sul fondo i dettagli floreali, indagati ancora alla maniera gotica, come in un Michelino da Besozzo miniatore o in un’opera del Pisanello. In alto, sotto l’Eterno, e in posizione centrale, la Madonna, inserita in un’abbacinante mandorla raggiata. Se le fonti bibliche per la scena vanno ricercate nella profezia di Isaia, “et egredietur virga de radice Iesse / et flos de radice eius ascendet (…)” (11, 1 ss.), lo stile è stato avvicinato a modelli nordici, forse, come detto, veicolati da incisioni di area tedesca.
La tavola nata in quel maggio rientra a pieno nel sentimento di rinnovato culto mariano che si diffonde in Umbria alla fine del Quattrocento e l’artista concede alla confraternita la sua Concezione ma va anche oltre, anticipando quasi il ruolo della Vergine come “seconda Eva”, colei che redime l’uomo dal peccato.
La Confraternita commissionerà almeno altre due opere, al figlio di Matteo, Girolamo: un Incontro fra Gioacchino e Anna alla Porta Aurea, oggi alla Rocca Flea, creato sul modello paterno dell’omonima tavola di Nocera Umbra, e quindi un’Annunciazione su due tavole.
Girolamo è più incline ad accostarsi allo stile propriamente umbro e sicuramente fa parte di una nuova generazione di pittori: non porta avanti le linee dritte e spigolose del genitore ma si avvicina al Pinturicchio, a Tiberio d’Assisi, al Signorelli, e se qualcosa di marchigiano gli si vuol trovare va ricercato forse nell’Agabiti. Certo però, il gualdese non si dimentica degli insegnamenti di suo padre, e lo si vede allo scadere del Quattrocento, con la pala commissionata sempre dalla chiesa di Santa Maria dei Raccomandati raffigurante, come nel lavoro nocerino di Matteo, l’Incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea. L’impostazione dei personaggi, la composizione dell’opera, i movimenti dei protagonisti, ci danno la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che Girolamo vede l’opera di suo padre e ne crea una sua versione, con una visione più morbida, terrena, meno astratta.
Verso il fondo della chiesa di Santa Maria dei Raccomandati, sulla parete absidale, possiamo vedere le più antiche decorazioni pittoriche rimaste. Contro il muro che oggi poggia sull’accesso della sacrestia, in alto un Cristo incoronato, di cui resta solo il volto, ci racconta del forte legame con la cultura pittorica umbro-marchigiana, e quindi appenninica. Su di un metafisico fondo, quasi un arazzo d’ispirazione antica, come quelli ammirabili presso il più antico nucleo della chiesa di Santa Maria Infraportas, a Foligno, addirittura di XI secolo, è decorato con motivi floreali stampigliati che richiamano la melagrana aperta, simbolo della Passione e Resurrezione di Cristo, adagiato su di un vero campo di stelle a otto punte, simbolo della purezza di Maria. Il volto di Gesù è ieratico, frontale, quasi bizantineggiante nella composizione plastica e pure nella decorazione della barba, più una peluria. Gli occhi si perdono in una lunga mandorla che richiama la tipologia senese, molto presente in Umbria in quel finire di Trecento.
Alla destra il quadro segue l’antica arcata scendendo a semicerchio: una vera rappresentazione naturalistica, paesaggistica, intesa alla maniera gotica, ci introduce in un luogo spirituale d’eccezione, quello dei Frati Minori Zoccolanti. Fa infatti parte di quell’ordine il beato, lo vediamo dall’aureola raggiata, piegato in preghiera, rivolto verso l’Eterno, raffigurato così come si è soliti in quel tempo, con la sola mano, come vediamo nel quasi coevo affresco a San Pellegrino, quello contenente il Beato Angelo. Il curioso nome di Zoccolanti venne loro affibbiato nel 1386, quando alcuni frati, stabilitisi nella zona boscosa di Brogliano, a Colfiorito, in Umbria, avevano ottenuto il permesso di calzare zoccoli di legno, per difendersi in qualche modo dai serpenti che infestavano la zona.
Importante l’iscrizione, che oltre a riportare l’anno, 1445, ci regala anche il nome della committente: Francesca di ser Gabriele. Nuovamente una commissione femminile, come molte ce ne sono nel territorio gualdese.
A livello pittorico, se abbiamo prima parlato di una geometrica e fissa influenza di certi artisti d’ambito camerte, qui ci troviamo davanti a ben altro: oltre al già descritto fondo, in cui la roccia, l’albero e il cielo sono trattati alla maniera gotica, è il volto a catturare l’attenzione. Pur risentendo ancora di un certo linearismo – si veda il saio, colonnare e monumentale -, ad una studiata barba trattata a ciocche infiammate, voluminose, scolpite, si accosta un vivo sguardo dalla spiccata ricerca psicologica, ancor più vivida e presente grazie alle rughe della fronte. Lo sforzo, la passione della preghiera, sono percepibili a fior di pelle, per un’evidente freschezza pittorica da accostare all’ambito di maestri come Angelo di Bartolomeo da Camerino, ma anche a ignoti pittori, come il Maestro di Fossato o seguaci, che molto hanno veduto di Ottaviano Nelli e della scuola eugubina. Lo stesso possiamo dire per il quadro alla sinistra della porta, raffigurante una meravigliosa Santa Caterina d’Alessandria, tipicamente contrassegnata dalla presenza della ruota, suo strumento di martirio. In un elegante e raffinato abito, impreziosito da stampigliature tipiche della pittura del periodo, Caterina si staglia monumentale e pure presente in quello sguardo che trapassa la pittura, valica il muro per arrivare all’osservatore prepotente. Gli occhi sono addolciti, così come abbiamo visto nel beato alla destra, più tondeggianti, afferenti proprio a quello stile vicino al Maestro di Fossato. Ai piedi, più piccola gerarchicamente, la committente, nuovamente una donna. Non sappiamo se possa essere o meno la stessa Francesca del già descritto affresco. Al centro uno sbuffo nero, segno delle candele accese a favore proprio della Santa. Vivido segno della devozione attraverso il tempo.
Purtroppo, il tempo ci ha privato della quasi totalità di uno dei quadri forse più iconici del territorio. Quel che intravediamo da pochi lacerti doveva essere un complesso Giudizio Universale molto vicino al pittore che decora anche la meravigliosa parete di fondo della chiesa di San Pellegrino, accostato da Storelli al Maestro espressionista di Santa Chiara e recentemente avvicinato dal prof. Fratini a Marino da Perugia, Marino di Elemosina, a cui Todini ha attribuito alcuni corali miniati per San Domenico eseguiti prima del 1321, una Madonna nel Museo Civico di Gubbio, un san Paolo in collezione privata napoletana e gli affreschi in san Francesco a Deruta. La forte vena espressionistica che anima le figure di chiara matrice giottesca-assisiate caratterizza la produzione di questo maestro, attivo a Perugia all’inizio del XIV secolo. Per Elvio Lunghi “la misura spaziale e la soda plasticità” rimandano ad artisti attivi ad Assisi, quali il Maestro Espressionista di Santa Chiara, ma fortemente influenzati dalla produzione plastica perugina di Giovanni Pisano.