Il complesso passaggio tra Medioevo e Rinascimento ha come punto focale una nuova posizione dell’uomo, che si considera e si riconsidera, anche in funzione del Divino, che sembra suggerirgli, come scriveva Pico della Mirandola, di tornare ad essere “straordinario plasmatore e scultore” di sé stesso. Il linguaggio artistico si fa specchio del mutamento culturale, scivolando verso una concezione meno anonima e abiografica, per diventare grammatica originale, determinata, irripetibile e personalissima. L’uomo del Rinascimento si libra a mezz’aria, tra terra e Cielo, purgandosi di ancestrali ed elementari peccati che pure non cancella, ma volge a suo favore: è una ricerca che quasi preannuncia l’empirismo, con lo studio di nuove forme, spazi, colori, luci e volumetrie, che convivono lungamente con una profonda cultura iconografica ben più antica, in un’altalenante equilibrio tra nuovo e consueto, tra verosimile e Celeste, in un contrasto di forze in cui ad ogni elemento nuovo sembra giustapporsi l’allegoria d’un mondo medievale ben più antico, in un sistema, per dirla come Huizinga, che “nella sua compiutezza arrivava fino al Cielo”.
La chiesa di Sant’Anna di Sigillo, nella sua attuale forma, rimaneggiata nel tempo, racchiude nel suo grembo il nucleo primo dell’edificio sacro, una piccola cappella sorta negli anni ’80 del Quattrocento, forse su una precedente struttura molto più antica. Adagiata lungo la via Flaminia, il cui antico tracciato passava e passa proprio lì accanto, oggi inglobato nella navata di destra, la chiesa dedicata alla patrona di Sigillo è nel Medioevo tappa obbligatoria per i molti pellegrini che si cimentano nei cammini sacri. Nel 1487 Matteo completa la parete di sinistra, probabilmente una Sant’Anna sulla parete d’altare e quindi la lunetta sulla parete di destra. Una Madonna in trono nel registro inferiore, a sinistra, è attribuita al figlio Girolamo, così come il registro inferiore di destra, decorato dal secondogenito del gualdese nel 1505 e a lui attribuito per la prima volta dal professor Enzo Storelli.
I lavori di Matteo da Gualdo a Sigillo incarnano a pieno lo stile del pittore del Rinascimento Eccentrico all’alba dell’ultima decade del Quattrocento, momento peculiare per delimitare il passaggio dell’artista alla sua età matura, e per riconoscere le prime, profetiche avvisaglie di quello che diverrà il suo tratto unico, evidente negli ultimi lavori, che lascia sgomenti i critici del passato, disorientandoli.
Sulla lunetta di sinistra un’Annunciazione si accosta all’omologa di Giomici, presso Valfabbrica, preconizzando quella di Gualdo Tadino, oggi conservata presso la Rocca Flea. Il Maestro cerca la prospettiva, il paesaggio, ci ricorda esempi di Carlo Crivelli, Piero della Francesca, Bartolomeo di Tommaso ma anche Benedetto Bonfigli e Bartolomeo Caporali. Nel registro inferiore una Madonna col Bambino di Girolamo di Matteo quindi, procedendo verso il fondo, San Giorgio, San Sebastiano e Sant’Antonio Abate, che sembrano fuoriuscire dagli archi d’un tempio. Se i primi sono emblematici dello stile del pittore, con l’iconico allungamento dei corpi, il Sant’Antonio ricorda, per l’imponenza e la ieratica frontalità, le declinazioni locali della pittura tardo-gotica umbro-marchigiana. Grande prova d’impegno prospettico ma anche paesaggistico, forse maggiore esempio a noi rimasto, San Francesco che riceve le stimmate, nella lunetta di destra, definito a ragion veduta il più ampio lavoro naturalistico del gualdese. La scena è tratta dalla Legenda Maior e non sembra affatto disconoscere l’iconografia italiana sorta nella prima metà del XIII secolo – tra cui la più antica testimonianza certa è la tavola con San Francesco e storie della sua vita di Bonaventura Berlinghieri del 1235 -, e quindi il modello giottesco.
“Pregando il beato Francesco sul fianco del monte della Verna, vide Cristo in aspetto di serafino crocefisso; il quale gl’impresse nelle mani e nei piedi e anche nel fianco destro le stimmate della Croce dello stesso Signore Nostro Gesù Cristo.”
(Legenda Maior, Bonaventura da Bagnoregio, 1263)
Sulla stessa parete di sinistra, nel registro inferiore, tre personaggi si inseriscono in altrettanti riquadri decorati con motivi architettonici nelle parti orizzontali e con forme floreali in quelle verticali. Il tutto a incorniciare, partendo dal fondo e procedendo verso destra, San Giovanni Evangelista, San Domenico e una Madonna del Soccorso dipinti da Girolamo di Matteo nei primi anni del XVI secolo. Pur riproponendo tipi che richiamano ancora il padre, con ornamenti floreali, anche in questo caso ricollegabili al Monte Cucco, e zoomorfie, Girolamo tende più al decorativismo e sembra più vicino ad uno stile propriamente umbro, accostandosi ai modelli offerti dal Pinturicchio, da Tiberio d’Assisi, dal Signorelli, dal Perugino – una sua Madonna col Bambino e angeli è attribuita da Berenson al Perugino -, e unico marchigiano accostato al figlio di Matteo, se si vuol cercare un legame oltre l’Appennino, è probabilmente il solo Agabiti, la cui patria però, Sassoferrato, era ben nota alla famiglia del pittore – Matteo aveva portato a termine un lavoro, forse per una famiglia notarile – e gravita pure nella diocesi di Nocera, la stessa che sovrintende Gualdo.