1487 MATTEO DA GUALDO, 1505 GIROLAMO DI MATTEO DA GUALDO

Chiesa di Sant’Anna, Sigillo, Cappella di fondo

«Non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte.»

Le affinità elettive, Johann Wolfgang von Goethe

L’importante ciclo che ricopre quasi interamente quella che oggi ci appare come una cappella della chiesa di Sant’Anna, un tempo unica parte dell’edificio religioso, prefigura quella che sarà l’età matura del pittore gualdese, gli ultimi anni, le cui prime tracce sono ravvisabili proprio in queste opere sigillane, che lo avviano ad una ricercatezza personale emblematica, esemplare nelle ultime opere. Pur mantenendosi sulle consuete tipizzazioni, a Sigillo Matteo accentua l’espressività, il patetismo, la linearità, in maniera simile alle due Vergini oggi conservate negli Stati Uniti, a Boston e a Baltimora, o all’edicola di Colle Aprico, affresco staccato oggi presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, a Perugia. I motivi classicheggianti d’aria padovana sembrano, in questa sede, metterci suggestivamente in connessione col territorio, rievocando l’onnipresenza della montagna che incombe su Sigillo, il Monte Cucco, con decorazioni che ricordano il giglio martagnone, il cardo, l’asfodelo, il maggiociondolo, tipici della ricchezza naturale di questi luoghi magici e fuori dal tempo.

L'Opera

Il complesso passaggio tra Medioevo e Rinascimento ha come punto focale una nuova posizione dell’uomo, che si considera e si riconsidera, anche in funzione del Divino, che sembra suggerirgli, come scriveva Pico della Mirandola, di tornare ad essere “straordinario plasmatore e scultore” di sé stesso. Il linguaggio artistico si fa specchio del mutamento culturale, scivolando verso una concezione meno anonima e abiografica, per diventare grammatica originale, determinata, irripetibile e personalissima. L’uomo del Rinascimento si libra a mezz’aria, tra terra e Cielo, purgandosi di ancestrali ed elementari peccati che pure non cancella, ma volge a suo favore: è una ricerca che quasi preannuncia l’empirismo, con lo studio di nuove forme, spazi, colori, luci e volumetrie, che convivono lungamente con una profonda cultura iconografica ben più antica, in un’altalenante equilibrio tra nuovo e consueto, tra verosimile e Celeste, in un contrasto di forze in cui ad ogni elemento nuovo sembra giustapporsi l’allegoria d’un mondo medievale ben più antico, in un sistema, per dirla come Huizinga, che “nella sua compiutezza arrivava fino al Cielo”.
La chiesa di Sant’Anna di Sigillo, nella sua attuale forma, rimaneggiata nel tempo, racchiude nel suo grembo il nucleo primo dell’edificio sacro, una piccola cappella sorta negli anni ’80 del Quattrocento, forse su una precedente struttura molto più antica. Adagiata lungo la via Flaminia, il cui antico tracciato passava e passa proprio lì accanto, oggi inglobato nella navata di destra, la chiesa dedicata alla patrona di Sigillo è nel Medioevo tappa obbligatoria per i molti pellegrini che si cimentano nei cammini sacri. Nel 1487 Matteo completa la parete di sinistra, probabilmente una Sant’Anna sulla parete d’altare e quindi la lunetta sulla parete di destra. Una Madonna in trono nel registro inferiore, a sinistra, è attribuita al figlio Girolamo, così come il registro inferiore di destra, decorato dal secondogenito del gualdese nel 1505 e a lui attribuito per la prima volta dal professor Enzo Storelli.
I lavori di Matteo da Gualdo a Sigillo incarnano a pieno lo stile del pittore del Rinascimento Eccentrico all’alba dell’ultima decade del Quattrocento, momento peculiare per delimitare il passaggio dell’artista alla sua età matura, e per riconoscere le prime, profetiche avvisaglie di quello che diverrà il suo tratto unico, evidente negli ultimi lavori, che lascia sgomenti i critici del passato, disorientandoli.
Sulla lunetta di sinistra un’Annunciazione si accosta all’omologa di Giomici, presso Valfabbrica, preconizzando quella di Gualdo Tadino, oggi conservata presso la Rocca Flea. Il Maestro cerca la prospettiva, il paesaggio, ci ricorda esempi di Carlo Crivelli, Piero della Francesca, Bartolomeo di Tommaso ma anche Benedetto Bonfigli e Bartolomeo Caporali. Nel registro inferiore una Madonna col Bambino di Girolamo di Matteo quindi, procedendo verso il fondo, San Giorgio, San Sebastiano e Sant’Antonio Abate, che sembrano fuoriuscire dagli archi d’un tempio. Se i primi sono emblematici dello stile del pittore, con l’iconico allungamento dei corpi, il Sant’Antonio ricorda, per l’imponenza e la ieratica frontalità, le declinazioni locali della pittura tardo-gotica umbro-marchigiana. Grande prova d’impegno prospettico ma anche paesaggistico, forse maggiore esempio a noi rimasto, San Francesco che riceve le stimmate, nella lunetta di destra, definito a ragion veduta il più ampio lavoro naturalistico del gualdese. La scena è tratta dalla Legenda Maior e non sembra affatto disconoscere l’iconografia italiana sorta nella prima metà del XIII secolo – tra cui la più antica testimonianza certa è la tavola con San Francesco e storie della sua vita di Bonaventura Berlinghieri del 1235 -, e quindi il modello giottesco.

“Pregando il beato Francesco sul fianco del monte della Verna, vide Cristo in aspetto di serafino crocefisso; il quale gl’impresse nelle mani e nei piedi e anche nel fianco destro le stimmate della Croce dello stesso Signore Nostro Gesù Cristo.”
(Legenda Maior, Bonaventura da Bagnoregio, 1263)

Sulla stessa parete di sinistra, nel registro inferiore, tre personaggi si inseriscono in altrettanti riquadri decorati con motivi architettonici nelle parti orizzontali e con forme floreali in quelle verticali. Il tutto a incorniciare, partendo dal fondo e procedendo verso destra, San Giovanni Evangelista, San Domenico e una Madonna del Soccorso dipinti da Girolamo di Matteo nei primi anni del XVI secolo. Pur riproponendo tipi che richiamano ancora il padre, con ornamenti floreali, anche in questo caso ricollegabili al Monte Cucco, e zoomorfie, Girolamo tende più al decorativismo e sembra più vicino ad uno stile propriamente umbro, accostandosi ai modelli offerti dal Pinturicchio, da Tiberio d’Assisi, dal Signorelli, dal Perugino – una sua Madonna col Bambino e angeli è attribuita da Berenson al Perugino -, e unico marchigiano accostato al figlio di Matteo, se si vuol cercare un legame oltre l’Appennino, è probabilmente il solo Agabiti, la cui patria però, Sassoferrato, era ben nota alla famiglia del pittore – Matteo aveva portato a termine un lavoro, forse per una famiglia notarile – e gravita pure nella diocesi di Nocera, la stessa che sovrintende Gualdo.

BIFULCI CASTRI SIGILLI FECERUNT: L’ANIMA DI UN POPOLO

Alla base del bastone del Sant’Antonio Abate compare una figura particolare che nasconde un dettaglio fondamentale per raccontare il territorio: un contadino, con zelo e sforzo, guida un aratro nella dura terra aiutato da due buoi. Sopra una scritta recita:
“BIFULCI CASTRI SIGILLI FECERUNT FIERI HOC OPUS MCCCCLXXXVII […] IUL”
ovvero, “i contadini di Sigillo fecero fare quest’opera, luglio […] 1487”. L’indicazione chiarisce come parte di questo ciclo d’affreschi venga effettivamente commissionato e pagato da coloro i quali lavorano la terra: gente comune, dunque, esponenti di un ceto non elevatissimo ma rappresentanti della società più legata alle tradizioni. Quel piccolo personaggio, che in sé racchiude tutto il mondo più vero di quel lontano fine Quattrocento, è rappresentante dei sigillani, summa del popolo, dei suoi sforzi, della sua devozione, della sua speranza e caparbietà.

IL VITTORIOSO: SAN GIORGIO, IL DRAGO, L’INVERNO

Epiteto spesso accostato a San Giorgio è proprio “il vittorioso”“O Τροπαιοφόρος” (tropeoforo), in un lungo intreccio di leggende, agiografie e racconti popolari che nel tempo producono differenti versioni della sua vita e delle sue gesta. Inconfondibile e noto è il drago contro cui combatte, rappresentante del male, dell’opposto, ma anche della sventura, delle calamità.
Nel registro inferiore della parete di destra, accanto a San Sebastiano e a Sant’Antonio Abate, il San Giorgio di Matteo da Gualdo sembra uscire da una struttura antica, inserita in un contesto architettonico coerente, come se apparisse attraverso le aperture di una loggia, superstite delle vestigia di un tempio romano. Nei riquadri, lavorati a motivi ricorrenti si accostano agli archi a sesto acuto sorretti da mezze colonne ornate di capitelli che alludono al tipo corinzio, non lontani da quelli presenti presso la chiesa di San Francesco di Gualdo Tadino. I tratti del volto di San Giorgio lasciano trapelare una strettissima connessione con la pala di Coldellanoce, presso Sassoferrato, di poco successiva. Il santo ci viene presentato finemente abbigliato e subito riconoscibile come un soldato: eretto e fiero, coperto da un corto mantello, si erge con il busto leggermente ruotato verso destra mentre fa perno sulle gambe aperte a compasso. Pur nello stile di un Matteo che si avvia verso quella fase in cui trasfigurerà le forme, l’atteggiamento del santo esprime un’idea di fermezza, anche morale, ma la contrapposizione fra la struttura irrigidita e lo sguardo produce in chi osserva una vera tensione psicologica: il risultato è magnetico. Il santo trattiene con due dita un labaro, un vessillo, che ci ricorda i modelli romani, e ne assicura la stabilità col suo piede destro. A terra, sul piede sinistro, uno scudo abbandonato, poggiato come dopo una battaglia. In entrambi gli attributi ricorre quello che pare essere quasi un simbolo araldico, con sfere gialle in campo rosso, in numero di nove, ma in questo caso probabilmente simboleggianti i nove frutti dello Spirito Santo.
Molto venerato sulle vie di pellegrinaggio, e la chiesa di Sant’Anna sorge proprio lungo l’antica via Flaminia, San Giorgio è anche fondamentale in ambito contadino: protegge i raccolti dall’inverno, alter ego del drago, che qui non è raffigurato, come fosse un’immanente ma invisibile presenza da combattere ad ogni costo, terrore e spauracchio di ogni società del tempo, soprattutto nelle difficili terre appenniniche, battute da tramontana, gelo e neve.

L’ANNUNCIAZIONE: UN NOME RITROVATO

L’Annunciazione, sulla lunetta di sinistra, parla in maniera inconfondibile la lingua di Matteo e non si fa fatica ad accostarla subito all’omologa dipinta a Giomici, a quella di Gualdo Tadino, su tavola, e quindi quella di Nocera Umbra. Tracce crivellesche e pierfrancescane convivono con la ricerca d’un equilibrio tra nuovo e antico: lo sguardo dell’osservatore, dapprima obbligato al centro della scena, fugge attraverso il pavimento del porticato fermandosi in un punto focale vicino al muretto di cinta, decorato a motivi classicheggianti e riportante l’iscrizione “AVE MARIA GRAZIA PLENA DOMINUS TECUM”. Un elegante hortus conclusus, simbolo della sposa, della Chiesa e della Vergine. Poco spostato sulla sinistra l’Arcangelo Gabriele porta il messaggio a Maria, in preghiera sulla destra, a mani giunte, inserita in uno studiolo, motivo ricorrente nell’arte, che qui occhieggia ai precedenti di Benedetto Bonfigli e di Bartolomeo Caporali. Alle spalle un seggio che è più uno scranno regale, in oro, preziosamente lavorato a tarsie, sul modello a candeliere, ripropone ricercati motivi classicheggianti che ricordano le decorazioni della già citata pala nocerina con l’Incontro tra Gioacchino e Anna alla Porta Aurea. Opposto a Maria, e ben più piccolo, com’è d’uso nel rispetto della gerarchia, il committente, alle spalle dell’angelo. Inginocchiato, in preghiera, a capo scoperto e con le mani giunte, tra le quali trattiene un berretto – elemento che, insieme alle vesti, identificano un personaggio d’alto rango -, sembra uscire da una porticina che conduce in un locale attiguo a noi precluso. Il committente, secondo recentissime ricerche, può probabilmente essere rintracciato nella famiglia Adriani, forse Giovambattista Adriani, o forse Giovanni di Niccolò, entrambi facenti parte dell’élite notarile del territorio. Un muretto a mattoni rossi, firma tipica del gualdese, chiude e completa la scena non senza un ultimo, colto messaggio: un elemento murario è mancante, vi fuoriesce una stoffa che ricorda tessuti vicino-orientali e che potrebbe essere identificata con il Tallit: tipico della cultura ebraica, è associato anche alla morte e quindi alla commemorazione dei defunti. Il tessuto potrebbe allora identificare proprio la Passione di Cristo, preannunciata già in questo tempo di Annunciazione.

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Video realizzato con il sostegno della Fondazione Perugia nell’ambito del progetto WellTree

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