Seconda metà degli anni '80 del XV secolo

Trittico di Coldellanoce

«[…] la grottesca, insomma, è il sogno dei pittori, una metafora del superamento della natura […]» (A. Pinelli, La bella Maniera, p. 133)

Una delle poche opere rimaste della bottega di Matteo da Gualdo fuori dai confini dell’odierna Umbria: nella Marca Anconetana, nel territorio di Sassoferrato, non lontano dalle vestigia dell’antica Sentinum romana, sorge il piccolo castello di Coldellanoce. Attualmente frazione di Sassoferrato, il villaggio è anticamente occupato prima dalla famiglia dei Federici, o Federicucci, poi dai Collenuccio, con una donazione da parte di Federico II. Matteo è chiamato a dipingere un trittico ligneo, e benché questo venga verosimilmente completato in bottega, a Gualdo, è probabile che il maestro si sia recato di persona nella stessa Coldellanoce, e nella chiesa di San Lorenzo Martire che ospita ancora l’opera. La motivazione dello spostamento di Matteo potrebbe essere da ricercare nella ricca committenza: i signori della famiglia Collenuccio, attestati dal 1470 al 1480 – con il loro massimo esponente in Pandolfo, letterato e anche podestà di Firenze – sebbene il dipinto, per i modi vicini ai lavori di Acciano e Colle Aprico, sembra di qualche anno successivo. Coldellanoce e Sassoferrato, in questi anni, dipendono direttamente dalla diocesi di Nocera Umbra, che ha giurisdizione anche su Fabriano, Pergola, Rocca Contrada (ora Arcevia) e Camerino, il che ha portato a pensare, in passato, ad una commissione ecclesiastica. Molto più verosimile e interessante la recente teoria per la quale l’opera potrebbe essere stata voluta da un collega di Matteo, ovvero un ricco notaio, ritratto nella stessa pala con il lucco, abito da lavoro della categoria. Il committente compare infatti, come di consueto in proporzioni ridotte, ai piedi della Madonna, nel pannello centrale, in un lavoro dalla grande preziosità del materiale, che ricorda l’esempio di Casacastalda anche nella carpenteria alla veneta, smorzata nei toni dal filtro marchigiano. La struttura, vera opera d’arte a sé stante che spesso passa in secondo piano, potrebbe essere stata preparata da un nome noto del territorio, Giovanni di Stefano da Montelparo, allievo di Giovanni da Maltignano, esemplare esponente di quella fiorente arte d’intagliatori nelle Marche di XV secolo. Di per certo Maestro Giovanni aveva già avuto contatti con l’attuale Gualdo Tadino, tramite un folignate, Niccolò di Liberatore, meglio noto come l’Alunno, per il quale forgia la base del cosiddetto Polittico di San Francesco, mirabile esempio di Tardogotico portato a termine nel 1472 per i Minori gualdesi e oggi conservato presso la Pinacoteca Civica Rocca Flea. Sassoferrato è intimamente legata a Gualdo sia attraverso la presenza di alcuni possedimenti dell’Abbazia di Santa Croce sia grazie alla presenza di personaggi di spicco del tempo che valicano l’Appennino verso occidente per accettare incarichi proprio nel gualdese: tra i più famosi l’Abate di San Benedetto Giovanni da Sassoferrato, committente della croce astile del 1381, mirabile esempio d’arte orafa gotica, e il podestà di Gualdo Andrea Alveolini da Sassoferrato, contemporaneo di Matteo. Nasce così un meraviglioso esempio di Tardogotico che parla la lingua del Rinascimento Eccentrico.

L'Opera

Le forme continuano ad allungarsi, così com’è tipico del periodo maturo del pittore, e lo fanno sempre più, quasi in maniera surreale, dai contorni tagliati e intagliati, segnati come con la sgorbia. I decori classicheggianti d’eco padovano fanno notare la loro presenza come “libere e fantastiche rievocazioni dell’antico” (Mancini 2003, p. 78) per una tavola che è un tripudio d’oro, metafisico sfondo dal quale i santi, quasi sospesi su di un pavimento di marmo screziato, sono separati solo da un parapetto decorato a losanghe che ricorda l’esempio a fresco presso la chiesa di San Pellegrino di Gualdo Tadino, più o meno contemporaneo, o il più antico lavoro presso l’Oratorio dei Pellegrini, in Assisi. La carpenteria alla veneta, che richiama i Vivarini, sfonda il suo spazio giocando con le ombre procurate dalla ricca cimasa, gugliata come la Porta della Carta di Bartolomeo Buon a Venezia. L’impianto generale, scandito in tre scomparti suddivisi da colonnine ritorte, sui modelli folignati di Bartolomeo di Tommaso – il cui figlio decora una croce reliquiario per Sassoferrato, oggi alla Raccolta Perottiana della stessa città -, ancora meglio sugli esempi padovani, che ricorda il Marco Zoppo della tavola bolognese, segue i soliti, stranianti ritmi tardogotici, e intride tutto di una diafana luce dorata che è manifestazione divina. A sinistra San Lorenzo, abbigliato con la rossa dalmatica bordata in oro lavorato, quasi a sbalzo, come in oreficeria. Sulla mano sinistra, aperte, le Sacre Scritture, mentre sulla destra, elegantemente poggiata sulla graticola, la palma del martirio. Il suo pronunciato hanchement sembra contrastare con la ricerca di fisicità corporea del San Sebastiano alla colonna, studiata anch’essa nella struttura, più vicina ai modi mantegneschi, che spunta però appena con la base e mezzo capitello, protocorinzio – non dissimile all’esempio del già citato Oratorio dei Pellegrini -, coperta com’è quasi totalmente dall’anatomicamente studiato corpo di San Sebastiano, per il volto del quale si è avanzata la possibilità della presenza di Girolamo, figlio secondogenito di Matteo, notaio e pittore pure lui come il padre. Fulcro dell’opera è però il pannello centrale: la Vergine e il Bambino stante, ovverosia in piedi e benedicente, attorniati da un coro d’angeli, sono assisi su di un trono decorato a grottesche dai surreali colori, che ricordano il mondo ferrarese di Cosmè Tura e la sua Pala Roverella. Pronunciato il movimento goticizzante di Maria, in un semicerchio che porta lo sguardo a vagare dal dolcissimo viso di Maria fino ai piedi dello scranno, dove i garofanini abbandonati a terra prefigurano la Passione. Un coro d’angeli vicini agli esempi di Girolamo di Giovanni o Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola protegge Maria e Gesù Bambino. La Vergine è assisa, avvolta completamente dal manto lapislazzuli segnato con la Stella Maris. L’abito pare essere una struttura a sé stante, mosso dalle rigide pieghe geometriche, impreziosito ai bordi in maniera non lontana dal già descritto San Lorenzo, e ancor più nel lavoratissimo pettorale. Delicatissimo il velo, ed elegante l’affusolata mano che pizzica l’incorporeo tessuto. Il Bambino indossa il corallo, simbolo della Passione e nel Medioevo diffusamente creduto miracoloso per alcune malattie infantili. Gesù tiene in mano un cartiglio che si srotola come mosso dal vento sul quale leggiamo “AD ME FLECTENTES BENEDICO”. Inscritti nelle cuspidi di un registro superiore tre tondi: a sinistra San Michele Arcangelo annunciante, vicino ai precedenti di Giomici e Sigillo, e a destra la Vergine annunciata, mentre il centrale, più grande, è occupato dall’Eterno.

Tutta la scena, che sembra talvolta cercare unitarietà, è ambientata, come accennato, in un idealizzato luogo dal pavimento marmoreo, chiuso in foglia d’oro e separato da un basso muricciolo decorato a grandi rombi, losanghe che sanno d’Antico. Accanto al committente, i garofani: chiamati anche “chiodini”, secondo la tradizione nascono dalle lacrime di Maria che cadono a terra alla vista del figlio crocefisso prefigurando anche loro la Passione. Un meraviglioso esempio di Rinascimento Eccentrico in terra marchigiana, al quale farà eco, qualche anno più tardi, la decorazione a fresco del figlio Girolamo per la chiesa di Santa Maria di Laverino, non distante da Sassoferrato, nel comune di Fiuminata.

D'oro, di luce, d'aria

«Così la pittura, così la poesia: ve n’è un tipo che meglio si apprezza se si sta vicino, e un altro se ci si tien lontano.» Così scriveva Orazio, e non facciamo difficoltà ad apprezzare da vicino i dettagli della Vergine inseriti nel trittico dal Maestro del Rinascimento Eccentrico. Un tripudio d’oro impreziosisce l’abito di Maria, come fosse lavorato a sbalzo, scolpito, modellato senza sforzo. Il prezioso elemento, che rimanda alla Luce e al Divino, segue il bordo del manto della Vergine e viene accostato all’impalpabile ed etereo velo, quasi fatto d’aria, di vento, appena pizzicato dalla sinuosa, elegantissima ed allungata mano, che ci ricorda modi trecenteschi, non lontani da Allegretto Nuzi. Sul polso spunta appena una ricamatissima camicia che dà l’illusione del pizzo, sul quale sembra ricamata la melagrana, altro simbolo della Passione: tocchi nervosi e veloci, per un dettaglio che va ben oltre il Tardogotico, inserendosi in pieno Rinascimento e forse prefigurando sapori di tardo Cinquecento. Il volto della Madre, piegato ad assecondare un forte hanchement, guarda altrove, malinconico, come già fosse conscia del destino del Figlio. Il capo è coperto dal manto color del cielo, un profondo blu che viene rovesciato sul bordo mostrando il verso, il lato interno di un verde intenso, come fosse morbido velluto, appuntato a un velo trasparente, come quello del Gesù Bambino, dal quale fuoriescono due ciocche di capelli. Tutto l’insieme sembra richiamare le acconciature di tardo XV secolo e prefigura la grande pala di Nocera Umbra, nella quale Matteo da Gualdo utilizzerà lo stesso dettaglio, amplificandone i toni metallici e i colori cangianti.

Scolpire d'Antico

Il dettaglio del trono, con i garofanini che sembrano germogliare da una grottesca, scolpiti in un surreale marmo dai toni verdi, accostato ad un’erubescente cornice lavorata, con una modanatura in aggetto a gola rovescia impreziosita da semplici palmette riprese alla base. Accanto la colonnina ritorta che funge da separazione tra i pannelli, un tempo ricoperta a foglia d’oro e già richiesta da Matteo per il suo primo lavoro su legno a noi noto, il cosiddetto Trittico di Santa Margherita, oggi presso la Pinacoteca Civica Rocca Flea di Gualdo Tadino.

San Lorenzo

Il San Lorenzo dipinto da Matteo da Gualdo per Coldellanoce incarna la pittura del periodo maturo del maestro gualdese. Su di un abbacinante fondo oro, trionfo del Divino, la figura del Santo si staglia quasi metallica, metafisica – come si sarebbe detto per altre figure delle sue ultime opere -, abbigliato con una pesante dalmatica, le cui pieghe assumono spigolose curve geometrizzanti, enfatizzate dalle pesanti bordature in oro lavorato. Esemplare il tessuto in corrispondenza del collo, per il quale val bene il paragone con lo stesso velluto verde che s’intravede nel manto della Vergine della stessa opera ma pure con i successivi esempi di Nocera Umbra – con l’Incontro fra Gioacchino e Anna alla Porta Aurea -, e di Gualdo Tadino – con l’Albero di Jesse -, dove pure sinuosità delle stoffe sembrano farsi interpreti di un linguaggio personalissimo, alla stregua della grottesca. Il Santo – signorelliano nella fisicità come lo stesso San Sebastiano -, sostiene il Libro, realizzato meticolosamente nel dettaglio, è assorto nella lettura e trattiene in mano la palma del martirio, come appena mossa da un leggero vento, sostenendola con pollice e anulare.

Gallery Fotografica

Video realizzato con il sostegno della Fondazione Perugia nell’ambito del progetto WellTree